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Politica, le opinioni



E i bolognesi?
Enzo 9 giugno 2003

La proposta di candidare Cofferati a sindaco di Bologna stupisce per il modo disinvolto (ad essere gentili) con cui tutti gli attori della vicenda si sono buttati alle spalle le roboanti dichiarazioni fatte nei mesi passati. Infatti, dagli apparati dei partiti bolognesi e dai rappresentanti dei movimenti (la così detta società civile) sono venute, dopo la cocente sconfitta che ha portato Guazzaloca a Palazzo d'Accursio, solenni dichiarazioni sulla necessità di apprendere dagli errori e di lavorare affinché le decisioni sulle candidature siano il risultato di un percorso democratico, di ampia partecipazione dei cittadini . C'era chi spingeva apertamente per l'adozione di vere e proprie primarie e chi (i partiti) caldeggiava un coinvolgimento della società civile attraverso momenti assembleari. In ogni modo c'era una dichiarata volontà di arrivare ad una proposta di candidatura condivisa da un ampio numero di cittadini. Tutto è andato in modo diverso: le segreterie dei partiti di centro sinistra si sono riunite e hanno deciso che Cofferati sarà il candidato a sindaco! In un colpo solo il dibattito e le proposte sulla "partecipazione dei cittadini" sono stati azzerati, cancellati! Infatti, come e chi potrà obiettare sul Cinese, che ha conquistato un indiscusso carisma di leader sul campo? Già! E' proprio così, tant'è che gli stessi rappresentanti dei movimenti, che più avevano spinto affinché si abbandonassero le pratiche da prima repubblica e la personalizzazione della politica, affermando che prima vengono i programmi condivisi, si sono ben guardati dall'obiettare sul "metodo". Gli errori del passato sono stati prontamente dimenticati e il leaderismo ha fatto premio sulle aspirazioni al rinnovamento della politica e al cittadino bolognese, ancora una volta, sarà sottratta la possibilità di "partecipare attivamente" alla scelta del candidato. A me pare evidente come questa candidatura rappresenti un tentativo di cooptazione/normalizzazione, e stupisce come molta parte di quelli che hanno alzato gli scudi in occasione della proposta per Cofferati di un seggio senatoriale, oggi esultino affermando che Bologna ha finalmente un leader/capo capace di vincere. In conclusione, questa vicenda, da un lato insegna che non c'è nessuna volontà di rinnovamento dei partiti (continuano, infatti, a dire che bisogna rinnovare, senza compiere alcun atto innovatore), dall'altro che nei partiti e nei movimenti esiste un populismo di sinistra che è pronto a sacrificare i veri fatti di rinnovamento pur di accontentare le proprie orecchie. In questo modo la sinistra non va da nessuna parte!

Noterelle a margine della vittoria elettorale
Manuela 10 giugno 2003

Dice l'Unità, commentando entusiasticamente la vittoria di Illy in Friuli: "In Carnia, ma anche altrove, è stato praticato il voto disgiunto. Una rivolta contro i "visitors" romani". Giusto. Non per campanilismo, ma per etica della politica, il candidato dovrebbe essere espresso dal tessuto sociale, e saperlo ben rappresentare. Si pensa forse che la sensibilità che ha portato molti elettori della CdL a scegliere Illy, in rivolta contro candidati calati dall'alto, non appartenga anche agli elettori di sinistra; s'immagina forse che noi si sia più "disciplinati" nel seguire le indicazioni di partito. Si disilludano; quel che è capitato in Friuli al centrodestra potrebbe capitare in molti altri posti al centrosinistra, se lo stile di designazione dei candidati non sarà diverso da quello applicato da Berlusconi. Se non ci sarà, in questo campo, un deciso cambiamento di metodo. Ogni riferimento a Bologna, non è affatto casuale.

Vittorie e sconfitte
Manuela 17 giugno 2003

Se sostengo che il mancato raggiungimento del quorum al referendum ha lo stesso segno della discesa in piazza dei girotondi l’anno passato, penserete che il troppo caldo mi abbia fatto male? Eppure la sconfitta del referendum mi sembra, più che una sconfitta di Rifondazione e di coloro che si erano schierati per il si, una vittoria della società civile. Una società che, nonostante tutto, dimostra in molte occasioni di essere più matura della propria rappresentanza politica. Le stesse persone che hanno ritenuto indispensabile mobilitarsi per la difesa dei principi democratici, o per la pace – questioni dirimenti, fondamentali per la convivenza civile - non hanno ritenuto di farlo per un problema di tutela sociale, che attiene squisitamente alla concertazione fra le parti e alla mediazione della politica. Indipendentemente da appelli, schieramenti, teoriche somme di voti fatte a tavolino. Da una parte, gli italiani hanno detto con chiarezza, se ancora ce ne fosse stato bisogno, che il referendum non può essere, appunto, strumento sostitutivo del confronto parlamentare e della concertazione. Lo si lasci a dirimere questioni d portata etica e trasversali alla politica. Dall’altra, che la politica deve tornare a fare il proprio mestiere, elaborando e progettando i futuri scenari anche per quanto riguarda il sistema delle tutele e del welfare. Questioni complesse, in una società che è cambiata e cambia rapidamente, che richiedono soluzioni complesse ed articolate, e, soprattutto innovative. E’ azzardato concludere che in tutto ciò ci vedo una gran voglia di Ulivo? Ulivo non come operazione aritmetica elaborata in qualche torre d’avorio, ma come “mentalità ulivista diffusa” , quella che fa sì che l’elettorato sia più convintamente maggioritario della classe politica, che si mobilita per candidati autorevoli, che richiede alla politica di tornare ad essere “alta e nobile” gestione della polis e non piccolo interesse di bottega.

(ANSA) - ROMA, 16 GIU - Un appello all'Ulivo per l'introduzione delle primarie non solo per la scelta del leader della coalizione, ma anche per tutte le consultazioni elettorali che si svolgono con il maggioritario. E' questa la richiesta rivolta al centrosinistra dai girotondi, con un appello firmato da Paul Ginsborg, Paolo Sylos Labini, Marina Astrologo, Teresa Mattei e Tana De Zulueta.
''Chiediamo a tutti i cittadini che si riconoscono nei valori del centrosinistra - si legge nell'appello - di fare fronte unico affinche' l'Ulivo adotti un sistema trasparente per la selezione delle candidature nelle elezioni con il maggioritario: leader della coalizione, presidente di Regione e Provincia, sindaco, presidente del Municipio, elezioni per il rinnovo della Camera e del Senato. In particolare chiediamo un metodo di selezione trasparente per i collegi uninominali per la Camera e per il Senato grazie al quale i cittadini possano finalmente scegliere i propri candidati''.
L'iniziativa sara' presentata in una conferenza stampa il 19 giugno nella sede della stampa estera a Roma.

Perchè in piazza contro il "lodo Berlusconi"
Marina Astrologo dei Girotondi di Roma 17 giugno 2003

L'ennesima legge che Berlusconi si sta ritagliando su misura segna un'ulteriore accelerazione nella strategia con cui il premier intende consolidare il proprio potere senza dover mai più rendere conto delle gravissime accuse che gli vengono mosse. Le norme sull'immunità per le cinque più alte cariche dello Stato, che il Parlamento si avvia a varare, stabiliscono espressamente che - fino a quando resterà presidente del Consiglio o andrà a occupare un altro fra i massimi ruoli istituzionali - Berlusconi non potrà essere processato per nessun reato già commesso o che dovesse eventualmente commettere in futuro (quand'anche si trattasse dei peggiori delitti comuni). Il processo si celebrerà soltanto se e quando lascerà l'incarico: sempre che, nel frattempo, non passi a ricoprirne un altro, e che non siano state emanate altre leggi a suo favore. Queste norme sull'immunità creano un pericolosissimo precedente e sono spudoratamente incostituzionali, perché fanno scempio dell'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, del diritto ad ottenere giustizia da parte di chi è stato offeso dai reati addebitati al presidente del Consiglio, del principio di ragionevole durata del processo (il suo è destinato a restare sospeso senza alcun limite di tempo) e dell'obbligatorietà dell'azione penale. E' il più grave schiaffo che mai sia stato inferto alla dignità di tutti i cittadini e alla Costituzione repubblicana: mai nessuno si era spinto tanto oltre nel piegare le istituzioni ai propri interessi. Ma vi è di peggio: proprio nel momento in cui perde consensi, anche sul piano elettorale, Berlusconi si assicura un formidabile strumento di conservazione del potere, giacché con questa legge si attribuisce il diritto di commettere qualsiasi crimine gli dovesse tornare utile per restare a palazzo Chigi, senza che nessuno possa neppure indagarlo. In breve, con la legge in discussione Berlusconi innesca un terribile circolo vizioso: se resta al potere può commettere reati senza rischiare processi e, se commette reati, ha interesse a restare al potere per avvalersi dell'immunità. In uno scenario così cupo, suonano oggettivamente sinistre le parole con cui il premier ha pronosticato che l'opposizione resterà tale "finché campa". Non possiamo stare a guardare lo spettacolo di un presidente del Consiglio che in pratica "grazia" se stesso. Non c'è tempo da perdere: vanno attivati tutti gli strumenti di partecipazione legale e democratica per dire NO a questa legge che ci espone allo scherno di tutti gli altri europei. Chiunque capisce, infatti, che con l'emanazione di quest'ennesima legge vergogna, l'attuale governo, oltre a pagare in termini di consenso interno, impone un prezzo altissimo al paese in termini di credibilità internazionale.

Riportiamo un articolo di Nando Dalla Chiesa pubblicato dall'Unità di oggi


Il semestre europeo, il prestigio internazionale del Paese». Risuona ovunque la nuova formula magica del mago Merlino dell’impunità, l’abracadabra che dovrebbe fare materializzare dopodomani la più insolente delle leggi ad personam licenziate in questa legislatura. Ma che cos’è il prestigio? Davanti alla nuova corsa (non troppo a ostacoli) della maggioranza per fare approvare l’editto Berlusconi in parlamento. Davanti ai vaniloqui sul semestre europeo, nuovo idolo pagano al quale sacrificare i principi costituzionali di un popolo; davanti al clima paludato e paludoso in cui si muovono i protagonisti della nostra vita pubblica; davanti a tutto questo, e al contorno dei suoi cerimoniali retorici, c’è una domanda che spariglia ogni convenzione. Questa, appunto: che cos’è il prestigio? Forse la società virtuale ci ha ormai derubato del senso stesso delle parole. Perché il prestigio è una risorsa immateriale ma non vaga, precisa, fatta di tante cose. Semplificando: la considerazione, la stima, la fiducia (e molto altro ancora) di cui è circondata una persona o una istituzione, in virtù della sua vita intera. In un mondo in cui tutto si compra, il prestigio non si compra. E nemmeno si acquisisce per imperio. O per legge. Diverso, radicalmente diverso - per questo -, dal potere, dalla ricchezza o dalla notorietà. E dunque che cosa vuol dire che occorre approvare l’editto Berlusconi (detto anche lodo Schifani) per salvaguardare il prestigio dell’Italia nel corso del semestre europeo? Di quale prestigio può mai ammantarsi un capo del governo il quale eviti i suoi processi nelle forme che sappiamo, sconvolgendo ogni principio di divisione dei poteri, facendo polpette della dignità del parlamento del suo paese, e infine ottenga di non farsi processare grazie a una legge incostituzionale? Egli, per capirsi, godrà di più considerazione se si assoggetterà alle leggi o se le calpesterà sprezzantemente? E, se le calpesterà impunemente, di quale prestigio potrà mai ammantarsi il suo paese agli occhi di qualsiasi società moderna fondata sul diritto? O forse, come giustamente ha fatto notare Furio Colombo nel suo editoriale di ieri, si immagina che all’estero, tra i partners europei, l’approvazione dell’editto Berlusconi farà salire la reputazione morale del nostro premier e delle nostre istituzioni? I poeti hanno il dono divino della sintesi. E per raccontare le istituzioni indegne del rispetto Fabrizio De André scrisse un verso indimenticabile: «Una volta un giudice giudicò chi faceva la legge. Prima cambiarono il giudice, poi cambiarono la legge». Qui il giudice non lo cambiano. Lo fanno sparire semplicemente. Da dove potrà sgorgare dunque il prestigio internazionale? Davvero sembra di vivere infilati in una commedia del grottesco. Le parole e i concetti si rincorrono tronfi, si stringono infine a coorte, quindi si squagliano davanti alla minima obiezione logica. Come grottesco è pensare (e dire) che chi non sta al gioco dell’impunità sia nemico dell’interesse del paese, secondo lo stesso assioma che, più di mezzo secolo fa, portò il giovane Giulio Andreotti ad accusare di antipatriottismo il cinema neorealista, reo di offrire all’estero un’immagine negativa dell’Italia. In realtà siamo chiamati ad affrontare in tutta la sua densità un grande problema che pesa, esso sì, sulla reputazione attuale e futura di questo paese. È il problema che, mutuando il titolo di un aureo libretto (Einaudi) che mette a confronto il cardinale Martini e Gustavo Zagrebelsky, potremmo chiamare della «domanda di giustizia». Il dialogo tra i due autori nasce presso la Cattedra dei non credenti, ma - come ogni tanto capita in virtù delle astuzie della storia - sembra tagliato su misura proprio per le nostre vicende odierne. E definisce un principio che ha radici nella storia degli uomini: l’idea di giustizia nasce dall’esperienza di un’ingiustizia, subita da noi o da chi ci è caro. Esiste cioè, fuori dalle teorie astratte e geometriche, un sentimento di giustizia su cui si costruiscono le società. Anzi, la giustizia così intesa è sorella della pace e della verità, fino a formare con esse una cosa sola. Ebbene, l’Italia di questi anni sta sperimentando una ferita del proprio senso di giustizia. Non è la prima ferita. Altre ne ha subite di fronte ai misteri delle stragi, a impunità clamorose e a grappoli di morti. Ma questa ferita, priva per fortuna del peso immenso dei morti, non nasce dai misteri. Nasce invece da ciò che è clamorosamente e scandalosamente alla luce del sole: la pretesa dell’impunità di chi è potente, laddove quel sentimento di giustizia porta Abramo a contestare, in nome della giustizia, perfino il Signore («Lungi da te far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio, lungi da te!»). Per questo incide sulla natura, sull’identità stessa del paese. E non conta, davvero non conta in questo frangente che la difesa di quel sentimento di giustizia non porti voti, come qualcuno continua a ripetere (cosa che già in sé è molto dubbia). Perché l’opinione della maggioranza non può trasformare in giusto l’ingiusto, né il vero in falso. Il sentimento di giustizia si esprime, si elabora fuori dalle contingenze, dalle pressioni del potere. E poi si confronta con la storia delle persone e delle istituzioni, misura - appunto - il loro prestigio. Perché, per usare le parole di Carlo Maria Martini, il senso di giustizia «è percepito da ciascuno di noi come valore assoluto, non negoziabile». «Non dipende» (ecco la famigerata questione del «portar voti») «da un’utilità» ma è «fondamento irrinunciabile che per il cristiano è basato sulla dignità dell’uomo». Ma c’è di più. Perché una società dagli incerti principi come la nostra sta andando, con la sua sterminata e frenetica legislazione di favore, verso un pericolo. Quello che sempre si manifesta quando il sentimento della giustizia viene offeso dalle leggi. In quel momento «giustizia» e «legalità» non coincidono più, possono anzi andare per strade opposte, diventare nemiche. E perfino il giudice, che ha il dovere di interpretare le norme «secondo giustizia», è costretto ad andare contro la legge; il che in base alla nostra Carta significa che ne reclama l’annullamento da parte della Corte Costituzionale. Anzi, laddove i giudici applichino le leggi fatte apposta per legittimare l’arbitrio (che è inevitabilmente l’arbitrio dei potenti), non ci troveremmo più in uno stato di diritto. Al posto del quale, man mano che giustizia e legalità si allontanano, si staglia piuttosto la sagoma inquietante e minacciosa dello «stato di delitto». Al di là dei nomi dei potenti di oggi, dei loro avvocati, dei loro maggiordomi in parlamento e nell’informazione, questa diventa dunque ormai la grande questione etica, civile, che misura il paese, l’Italia all’inizio del terzo millennio. Il conflitto tra la legge e la giustizia, l’allargarsi insopportabile di quel solco (entro certi limiti fisiologico) che separa il diritto naturale dal diritto positivo, l’irriducibilità del potere ai principi costituzionali e alle leggi che sono nate dal loro grembo. La più assoluta e sfrontata delle impunità dovrebbe essere approvata dal parlamento ed essere controfirmata dal Presidente della Repubblica in questa temperie. In nome della ragion di Stato, si dice. Solo che qui, viene da osservare, le ragioni di Stato sono due. La prima è quella della quiete e della convivenza tra i più alti poteri istituzionali. La seconda è quella della fibra morale e della qualità storica dello Stato stesso, l’unica che dia «prestigio» davanti ai contemporanei e davanti ai posteri. Qual è la più importante?

L'avvenire di una illusione
Solimano 23 giugno 2003

L'illusione è il referendum, l'avvenire di questa illusione è uguale a 0(zero). Tranne che per gli eventuali referendum confermativi nel caso di modifiche alla Costituzione senza maggioranza qualificata, perché non c'è l'obbligo del quorum.
Ma resto nel caso dei referendum normali, senza dare giudizi di merito, ma di solo buonsenso. Il 40% dell'elettorato non andrebbe comunque a votare; basta, a chi si oppone al referendum, convincere un altro 10% dell'elettorato a starsene a casa, ed il gioco è fatto. Un gioco facilissimo.
Eppure oggi i verdi, i cossuttiani, i dipietristi hanno annunciato (restando seri) che raccoglieranno le firme etc etc. Non solo: non si sono neanche messi d'accordo, i dipietristi le raccolgono per conto loro.
Perché perdono tempo in questo modo? Perchè sono più indignati, meno inciucisti, più rigorosi e via di questo passo?
No, perchè si aggrappano a tutte le occasioni per raccogliere qualche spicciolo di visibilità, specie contro le due forze maggiori dell'Ulivo. Il fatto, che ho toccato con mano, è che questi partiti, a livello di mobilitazione e di organizzazione territoriale semplicemente non esistono, né pensano di darsi da fare per esistere. Lucrano in tutti modi possibili una piccola rendita di posizione. Cercano di fare le mosche cocchiere di qualsiasi cosa che si muova, ma la loro è una forma di parassistismo politico.
Esistono, certo, gli ecologisti, ma non hanno del tempo da perdere per ascoltare l'ultima ganzata di Pecoraro: operano nelle associazioni, nei movimenti, si fanno il mazzo, mentre Di Pietro, Diliberto e Pecoraro, se non parlano in un microfono purchessia sette volte al giorno vanno in crisi di astinenza. E' un gioco sordido che ha degli aspetti paradossali.
Ne cito uno recente, riguardo la ventilata candidatura di Cofferati a Bologna. Che ci siano opinioni diverse, tanti sì, tanti se e tanti ma ci può stare. Quello che non ci può stare è che il signor Paolo Cento, paracadutato a S.Giovanni in Persicento abbia sentito il dovere di esternare i suoi se ed i suoi ma. Proprio lui!!!
A quando un bel manifesto con tante firme attaccato su tutti i platani del Persicetano che dice che i cittadini "er sor Cento nun lo vonno propio"? Così capisce puro isso...

Saluti selvatici
Solimano

Partito Riformista Europeo
Manuela 31 agosto 2003

Rifletto sul perchè, all’annuncio del progetto di partito riformista fatto da Prodi e D’Alema, non mi infiammo subito di entusiasmo. Eppure dovrei, per tutte le volte che ho discusso e scritto, sostenendo l’”inevitabilità” di questa scelta, per ridare ali alla politica italiana. Intanto la parola “riformista”; e sarebbe una parola piena di positive evocazioni, ma l’uso e l’abuso di questi anni la fanno irrimediabilmente assomigliare a Polito, e ad una tiepidezza, un cedimento a qualsiasi compromesso e alla rinuncia a trasformare (“riformare”, dunque) la società per accontentarsi di governarla. Preferirei un altro nome. Ulivo, andrebbe bene, ammesso che lo si possa usare. Poi D’Alema. Sarà un pregiudizio, ma è un pregiudizio che ha avuto molti riscontri, nella storia degli ultimi10 anni. Quindi è inevitabile che il nome faccia pensare a tatticismi piuttosto che ad ampi disegni strategici, e ad un manierismo politicante ancora una volta tutto rinchiuso negli ambiti di pochi “professionisti”!. Credo che la discriminante sia proprio in questo aspetto. Sono del tutto convinta che un percorso dalla sfarinatura attuale di partiti e partitini verso un soggetto politico unico – quello che si chiamò a volte “partito democratico” – sia fondamentale. Non solo per calcoli elettorali – che pure contano anche quelli, se ad ogni elezione si ripete il ritornello che “la coalizione prende più voti dei singoli partiti”. Ma soprattutto perchè la geografia politica che ancora resiste oggi ripropone schemi e divisioni del secolo scorso, che non rappresentano più una società profondamente trasformata. Ed è indispensabile per dare una risposta in termini politici a tanti giovani cui è impossibile riconoscersi in categorie crollate col muro di Berlino. E tuttavia credo che tutto ciò abbia un senso solo se , mentre scardina le logiche di appartenenza e di identità, inventando identità ed appartenenze più ampie e più inclusive, e mentre scardina le logiche di coalizione e i veti e i “non possumus” che hanno caratterizzato tanti momenti dell’Ulivo dopo il ’98; se, mentre fa tutto questo, scardina contemporaneamente vizi e riti della vecchia politica dei partiti. Per farlo, questo progetto dovrebbe essere capace di parlare alla società civile, mobilitandola per un profondo rinnovamento della politica; ad iniziare da una riflessione sui percorsi meritocratici , e alle modalità di reperimento del personale politico (il riferimento alle primarie è ovvio). E questo progetto, dovrebbe, prima di ogni altra cosa, essere in grado di rilanciare una rinnovata moralità della politica; che significa rinnovati costumi di serietà e di sobrietà, nonchè l’assunzione della politica come servizio, e non solo esercizio di potere. Ecco, se si uscisse dalle operazioni di vertice (e conseguentemente dai “si , ma, però...”, i distinguo e le puntualizzazioni, ecc. ecc., che rischiano di ammorbare fin da subito un progetto che dovrebbe puntare ben più alto), per diventare profondo movimento di rinnovamento che coinvolga, in un unico sforzo, partiti, società civile, tutti noi cittadini insomma, allora sì che varrebbe la pena di entusiasmarsi. Allora sì che si può pensare di scuotere le coscienze e di entrare, finalmente, in una nuova era della politica.