leggi precedenti


Politica, le opinioni



Una lettera senza risposta
Enzo 31 maggio 2003

Domenica 25 maggio Repubblica ha pubblicato una lettera del Procuratore Aggiunto di Torino Bruno Tinti. E' chiaro che in un "paese normale"una lettera come questa non sarebbe mai stata scritta, perché al "Primo Ministro" non passerebbe nemmeno per l'anticamera del cervello di lanciare accuse gratuite ad un altro potere dello stato. Sempre in un "paese normale" la lettera avrebbe provocato una forte indignazione della pubblica opinione, che, detto in altre parole, equivale ad una azione sanzionatoria cui nessun uomo pubblico verrebbe in mente di sotrarsi. Ma, tant'è, siamo in un paese difficile dove è necessario lottare per il rispetto delle regole di convivenza democratica. E' per questo che ripropongo il testo della lettera: facciamola circolare!

Signor Presidente del Consiglio,
ho visto "Porta a Porta" di giovedì scorso e ho ascoltato le sue dichiarazioni sui magistrati che si sono occupati dell'indagine Telekom Serbia, in particolare quando ha detto che essi avrebbero chiesto l'archiviazione nei confronti degli indagati perché " magistrati combattenti ... collaterali alla sinistra"; e quando ha detto: "Lo credo bene che Rutelli e Fassino dicono di aver fiducia nei magistrati, sono dei loro". Mi sono molto arrabbiato, essendo io il Procuratore Aggiunto che, insieme con i Sostituti Roberto Furlan e Paolo Storari, ha condotto quell'indagine; e ho deciso di querelarla. Non esiste infatti per un magistrato un'accusa peggiore di quella che lei ci ha mosso, quella di non essere imparziale; e non esiste quindi un insulto peggiore. Poi, quando ho cominciato a scrivere, mi sono reso conto che stavo per fare uno sbaglio. Io non voglio querelarla: non ho interesse a che lei sia punito per gli insulti che ha rivolto a me e ai miei colleghi; e non ho interesse a ricevere una somma di danaro a risarcimento del danno morale che ci ha cagionato: per lei sarebbe comunque poca cosa; e io non ho mai attribuito importanza al danaro, ne ho quanto mi basta. Io voglio che lei capisca la gravità di quello che ha detto; che si renda conto di aver accusato ingiustamente persone che hanno lavorato con rigore morale e serietà professionale. Io voglio, signor Presidente, che lei accetti il fondamentale principio che ho in me da quando ho l' età della ragione e che uno dei miei maestri dell'Università ha così bene espresso: se al mondo ci fossero solo due uomini e questi uomini fossero San Francesco e Santa Chiara, il diritto starebbe tra loro ad indicare quello che è giusto. Io voglio che lei capisca che quando un giudice assolve o condanna fa proprio questo, indica quello che è giusto. I miei colleghi ed io abbiamo governato il diritto; forse non lo abbiamo fatto con sapienza, con competenza e sensibilità adeguate. Ma, signor Presidente, lo abbiamo fatto con imparzialità e senso della giustizia. E lei ha fatto male quando ci ha accusato di essere amici degli indagati, o di persone che a questi erano vicine, o di parti politiche cui gli uni e gli altri sarebbero appartenuti; e quindi di aver preso una decisione contraria al diritto. Lei, signor Presidente, non aveva nessuna ragione per dire quello che ha detto: non conosce né me né i miei colleghi e non può sapere se noi si sia "amici" di questo o di quest'altro; e nemmeno può sapere se noi siamo giudici disposti a tradire la nostra funzione per favorire eventuali "amici". Non sa nulla di Telekom Serbia, non avendo letto un solo foglio dei 35 o 40 "faldoni" che abbiamo riempito nel corso dell'indagine; e, se per avventura qualcosa avesse saputo, avrebbe avuto il dovere, come cittadino e più ancora come Presidente del Consiglio, di portarlo a nostra conoscenza e di aiutarci a prendere la decisione più giusta. Ma, soprattutto, lei non doveva dire al nostro Paese, senza motivo e senza prove, che ci sono giudici disposti a favorire gli amici. In questo modo lei ha imbarbarito la coscienza civile dei cittadini, li ha indotti a cercarsi protettori potenti in modo da avere la garanzia di essere "favoriti" se mai ce ne sarà bisogno, ha sostituto la fiducia nello Stato con l'asservimento a questa o quella parte politica. I miei colleghi ed io, signor Presidente, vogliamo che lei riconosca di aver sbagliato; vogliamo che si informi sulla nostra storia professionale, sul nostro impegno e sul nostro onore. E vogliamo sentirci dire che è vero, non siamo "amici" di nessuno e che, comunque, siamo uomini e giudici per cui eventuali affinità di cultura, di passione politica o di impegno sociale mai possono prevalere, come mai hanno prevalso, sul nostro dovere di imparzialità e indipendenza. Ci chieda scusa, signor Presidente. Riconoscerà l'onore a giudici onesti e imparziali; e renderà fiducia al Paese.
Con osservanza.
Bruno Tinti Teniamo alta la guardia
Enzo 30 maggio 2003

Massimo nel suo intervento pone un quesito importante: "noi Cittadini per l'Ulivo andiamo a Monte San Savino per tentare di darci una nostra organizzazione. E' un bene o un male?" Per rispondere al quesito in modo positivo, i Cittadini per l'Ulivo debbono resistere al canto delle sirene che vorrebbero vederci (in modo subalterno) "organizzazione" dentro ad un Ulivo che mantiene inalterati i "vizi" e le "prassi" che hanno caratterizzato la crisi dei partiti del c.s. In altri termini se il Nuovo Ulivo si basa sull'idea di una semplice "razionalizzazione organizzativa" che lascia inalterati i motivi che sono all'origine delle attuali difficoltà, non c'è dubbio che il creare una "nostra organizzazione" significa ascoltare il canto delle sirene. Credo, invece, che la funzione dei Cittadini per l'Ulivo debba essere quella di tenere alta la guardia circa le domande che, ormai, da troppo tempo rimangono inascoltate. Mi riferisco al bisogno di un rinnovamento della politica, di un progetto di governo del paese, di nuovi modi di partecipazione. Ma, allora, se è questa la "motivazione" che spinge tanti cittadini ad impegnarsi al di fuori dei soliti canali della politica, dobbiamo essere "rigorosi" nel sollecitare la politica, facendo di alcuni temi i punti "fondanti una nuova cultura politica" e dal quale non possiamo recedere. Per fare questo è utile -come dice Massimo - diventare "società politica", ma non è sufficiente se, appunto, non saremo capaci di condizionare l'agenda politica e i contenuti della stessa. Per intenderci da Monte San Savino dovrà partire una azione a livello territoriale e nazionale affinché le primarie, l'iscrizione diretta all'Ulivo, diventino realtà. Solo in questo modo una "nostra organizzazione" sarà utile per avviare finalmente il cammino per la costruzione del Nuovo Ulivo.

Organizzarci per partecipare
Massimo 29 maggio 2003

Partiti, eletti e Comitati e Associazioni di cittadini: queste le componenti dell'Ulivo che vennero indicate a Chianciano, ormai quasi un anno fa.
I partiti hanno una loro struttura; gli eletti sono inseriti in quella istituzionale; mentre noi Cittadini per l'Ulivo andiamo a Monte San Savino per tentare di darci una nostra organizzazione.
E' un bene o un male?
Chi si organizza, diventa "come un partito"?
Detto ancor più chiaramente: i "Cittadini per l'Ulivo" - costituiti, organizzati e rappresentati - diventano più "burocratici" o più incisivi?
Io credo più incisivi. Sono convinto, infatti, che per continuare a raccogliere e rappresentare anche chi non si riconosce più nelle consunte modalità di partecipazione praticate dai partiti, occorra dotarsi di un'organizzazione che renda possibile una nuova sperimentazione della delega, non la sua negazione.
Mi spiego. Chiunque dovesse rappresentarmi - su base regionale e/o nazionale - vorrei che lo facesse prima di tutto perché l'ho scelto (votato) insieme ad altri; una volta scelto, vorrei che continuasse ad ascoltare e valorizzare i contributi che potrei - sempre insieme ad altri - fornirgli.
Nei partiti, quest'ultimo passaggio non avviene. Ci sono i "consulenti" accreditati, i centri studi "di area" (intendiamoci: ottimi cervelli), ma gli scambi di conoscenze con la società civile sono episodici oppure culturali: raramente "politici"; nel senso di raccolta ed elaborazione di idee e proposte per la redazione di programmi. Sì, lo so, si svolgono i dibattiti nelle sezioni, incontri, conferenze, feste e via di seguito, ma la "corrente ascensionale" delle competenze - dai cittadini ai partiti - non c'è. Insomma, manca l'ascolto, l'incontro, l' "ibrido": ovvero, il gruppo misto - esperti di partito con esperti della base - che lavori assieme su temi definiti.
Costituirci e organizzarci, pertanto, vuol dire anche "proporci" come co-artefici del cambiamento, con precise ipotesi di partecipazione al "progetto Ulivo", abbandonando progressivamente le vesti suggestive ma indistinte di società civile per diventare "società politica", vera e propria componente del "Nuovo Ulivo".

Berlusconi e il diritto
Massimo ci segnala questo interessante intervento del Prof. Lipari 26 maggio 2003

Sono ormai diventate di frequenza quotidiana le lamentazioni del Presidente Berlusconi sull'uso distorto del diritto da parte dei giudici, volti (a suo dire) a perseguire risultati di segno politico, anziché quelli propri di una effettiva affermazione di giustizia.
Per intendere il senso autentico di queste affermazioni, forse è necessario riflettere sull'idea di diritto che accompagna i comportamenti e le dichiarazioni del nostro capo del Governo, fermo restando che, prima di discutere sugli esiti, bisogna convenire sui meccanismi procedimentali attraverso i quali si realizza e si esprime l'esperienza giuridica. Non si tratta infatti di demonizzare Berlusconi, ma semplicemente di indurlo alla coerenza.

Il primo postulato sul quale è davvero impossibile non convenire è che il diritto, per sua natura, si contrappone alla forza.
Esso è nato e si giustifica proprio per contrastare la mera registrazione dei risultati conseguiti attraverso l'esercizio della forza. Ogni qualvolta dunque il diritto viene inteso come ratifica di rapporti di forza consolidati (si tratti della semplice presa d'atto del principio di maggioranza o degli esiti di rapporti mercantili consumati) esso viene contraddetto nella sua essenza.
Il diritto vale per tutti; non può essere prevaricazione del più forte o dei più. Eppure è proprio questo il modello che ci viene quotidianamente prospettato, attraverso l'insistente richiamo alla regola della maggioranza o al valore in sé della dialettica di mercato.
D'altra parte non si tratta di un principio di segno meramente astratto, proprio perché esso è stato verificato e riaffermato all'interno del nostro ordinamento.
Con una sua celebre sentenza (la n. 1146 del 1988), poi ripetutamente richiamata e ribadita, la nostra Corte costituzionale ha dichiarato che vi sono alcuni valori fondanti del nostro ordinamento che non possono essere modificati neppure all'esito di un procedimento di revisione costituzionale. Un loro sovvertimento, comunque attuato, darebbe luogo ad un evento di segno rivoluzionario che cambierebbe in radice il nostro assetto costituzionale.
Anche la più ampia delle maggioranze consentite non può dunque valere per cambiare alcuni princípi di fondo che rappresentano l'essenza del nostro sistema giuridico.
Come intendere allora le quotidiane negazioni del principio di eguaglianza (art. 3), del principio di solidarietà (art. 2), del principio di unità (non solo politica, ma anche giuridica: art. 5), del principio della separazione dei poteri, del principio di autonomia dei giudici (art. 101, più volte richiamato, con accorati accenti, dal Presidente della Repubblica), che rappresentano il quotidiano leit-motiv delle filippiche berlusconiane?
Per quanto riguarda il profilo del rapporto con l'amministrazione della giustizia (che, per ovvie ragioni, è quello che più dà fastidio al nostro Presidente del Consiglio) si può anche ricordare che l'esclusiva riferibilità ai giudici del procedimento interpretativo della legge costituisce principio radicato del nostro ordinamento giuridico.
L'art. 2 della legge 13 aprile 1988, n. 117 (la famosa legge sulla responsabilità civile dei magistrati voluta dal governo Craxi per cercare di neutralizzare sul nascere ogni possibilità di intervento giudiziale sull'inquinamento della politica, una legge sicuramente non imputabile a perversi disegni della sinistra) testualmente prevede che "nell'esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove". La garanzia di una corretta amministrazione della giustizia non può che essere interna al meccanismo giurisdizionale, attraverso la verifica offerta dagli ulteriori gradi di giudizio.
Come si conciliano questi elementari princípi con le quotidiane impennate di Berlusconi?
Premesso dunque che non tutte le regole possono essere modificate e che solo i giudici sono legittimati ad interpretare quelle in vigore, un altro postulato sembra essenziale per intendere il modo d'essere del diritto come valore condiviso.
La regola deve preesistere al comportamento quale criterio di valutazione del medesimo.
Una regola che seguisse a fatti già consumati per limitarsi a ratificarli e convalidarli finirebbe inevitabilmente per negare il diritto riconducendolo al primato della forza.
Lascio a ciascuno dei miei lettori di scegliere, fra le iniziative più recenti del nostro Parlamento, quante non hanno fatto altro che porre l'imprimatur di una legge formale su di un evento già attuato e che, nel momento in cui è stato posto in essere, sarebbe stato giuridicamente sanzionabile.

Vi è al fondo della filosofia berlusconiana una concezione del diritto personalistica, settoriale o di parte.
Anche qui è agevole osservare che l'idea stessa di giuridicità implica invece il superamento del concetto di parte, esige l'idea di una collettività generale che addirittura si proietta nel tempo e trascende l'ottica limitata di una peculiare applicazione affidata ad un determinato momento, ad un particolare rapporto di forza.
Non a caso la stessa Corte costituzionale, in un'altra famosa sentenza (la n. 300 del 1993), ha lasciato intendere che il principio di solidarietà finisce per essere metafora dello stesso concetto di giuridicità, in quanto esso va collocato "tra i valori fondanti dell'ordinamento giuridico" costituendo il riflesso dell'"originaria connotazione dell'uomo uti socius". E la solidarietà abbraccia tutti, proiettandosi anche verso le generazioni future.
Non si può chiedere a Berlusconi di condividere queste idee, posto che esse chiaramente contraddicono al suo DNA culturale. Bisogna tuttavia onestamente riconoscere (senza alcun intento demonizzatore) che il modello culturale del capo degli "azzurri" implica logiche di tipo "diabolico" (nel senso etimologico dell'espressione, che significa ciò che divide).
Se vogliamo dunque vittoriosamente replicare a tale modello, implicando anche gli esclusi, gli sfiduciati, i disattenti, è necessario compiere – con coerenza e tenacia, nel segno del diritto – atti di tipo "simbolico" (nel senso etimologico dell'espressione, che significa ciò che unisce). Dobbiamo vincere le contrapposizioni, le barriere, gli artifici dell'esclusione.
Ripercorrendo le tappe dell'epopea berlusconiana mi sono tornate alla mente le lapidarie parole di Theodor W. Adorno che, in uno degli aforismi (n. 85) di quell'aureo libretto che è "Minima moralia", così scriveva oltre sessant'anni fa: "Agli occhi di chi, in un modo o nell'altro, è impegnato nella prassi, persegue o realizza progetti, gli uomini con cui viene in contatto si trasformano automaticamente in amici o nemici.
Esaminandoli alla luce delle sue intenzioni, li riduce a priori ad oggetti; gli uni sono utilizzabili, gli altri sono di ostacolo. Ogni opinione discordante appare, entro il sistema di riferimento degli scopi di volta in volta prestabiliti, di cui nessuna prassi può fare a meno, come fastidiosa resistenza, sabotaggio, intrigo; ogni consenso, e sia pure determinato dal più basso interesse, diventa promozione della causa comune, utile contributo, prova di fraternità. Il rapporto con gli altri si impoverisce; viene meno la capacità di avvertire l'altro come tale e non in funzione della propria volontà, e soprattutto l'attitudine al fecondo contrasto, la possibilità di sollevarsi su di sé attraverso l'incorporazione del punto di vista del contraddittore".
Nonostante il lungo tempo trascorso, sono parole spaventosamente attuali, che lucidamente riproducono l'atteggiamento mentale e culturale di Berlusconi: un atteggiamento che in qualche modo ripropone quell'antitesi tra le categorie di amico e nemico con la quale Karl Schmitt definì l'essenza della politica. Solo che in quella antitesi il nazismo raggiungeva la coscienza storica di sé.
Che l'antitesi amico-nemico caratterizzi il paradigma politico del berlusconismo non può essere seriamente contestato.
Come altrimenti definire uno "stile" che nega agli avversari politici (in funzione di una etichettatura aprioristicamente data e storicamente incongrua) ogni legittimazione a governare, che definisce "criminali" alcuni giudici in funzione del temuto contenuto della loro decisione, che qualifica come diffamazione ogni riferimento a fatti riferiti a taluni soggetti individuati, che esclude ogni lettura dell'esperienza che non sia in qualche modo finalizzata?
Il problema consiste allora – nonostante la stanca ripetitività degli atteggiamenti assunti da alcuni esponenti della sinistra, incapaci di raccogliere l'appello che va emergendo da una società civile che ormai chiaramente invoca di essere interpellata politicamente (al di là dei periodici appuntamenti elettorali) – nel rompere le incrostazioni di una simile logica perversa, per superare l'artificiosa antitesi amico-nemico, per avvertire che solo nel simbolo che unisce si può ricostruire l'unità di una politica prima deteriorata dagli affari e oggi distrutta dalle contrapposizioni ideologiche.
Ritornano, anche in questa nostra tormentata stagione, ammonitrici le parole di Martin Buher ("Io e Tu") quando diceva che la decisione (e segnatamente la decisione politica) è possibile "solo se si convoglia nel fare dell'uno l'intera forza dell'altro, se si lascia entrare nel farsi realtà di ciò che è stato scelto l'inesauribile sofferenza di ciò che non è stato scelto".

Mani sulla città
Manuela 24 maggio 2003

Qualche bello spirito ha lanciato la candidatura di Cofferati a Sindaco di Bologna. Reazioni entusiastiche da tutto il centrosinistra (chissà poi cosa significano davvero, bisogna stare attenti, qua si parla in politichese stretto). Solo il vecchio Berlinguer reagisce di brutto, convinto si tratti “di una delle tante notizie false e tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico e privato”. Speriamo abbia ragione.
Una manovra del genere, politicista quanto mai (“La proposta risulta essere nata a Roma, tra Via Nazionale e Corso Italia…” eh, ti pareva!) avrà forse effetti che non so e non mi interessa sapere sugli equilibri interni dei ds e della coalizione tutta. Ma certo non avrebbe effetti benefici su Bologna.
Bologna è una bella città ricca e colta, con un tessuto sociale ancor solido (se pur sottoposto alle torsioni tipiche delle grandi città) e stratificato. Ha già una volta rigettato via da sé una politica sempre più rinchiusa nelle sue stanze, appagata di bizantinismi, inconsapevole dei mutamenti che avvenivano all’esterno, troppo supponente e talmente certa delle risposte da non ascoltare nemmeno le domande.
Forse oggi la città è delusa da quella scelta, che non è stata in grado di rappresentare come avrebbe dovuto, la sua complessa realtà. E sarebbe venuto il momento di presentare persone capaci di farlo veramente. Non per mitizzare una “società civile” che ha tutti i pregi e i difetti che ben conosciamo; ma per immaginare una politica in grado di saperla rappresentare, questa società civile, guidare, ed attingervi le energie positive che vi sono.
Non credo possibile che una città così, ricca e colta, non sia in grado di esprimere una classe dirigente in grado di governarla; né che non vi siano, a Bologna, uno, dieci, cento “Michele Faglia” capaci di aggregare attorno a sé le forze migliori della città, e di portare una proposta credibile di buongoverno e sviluppo.
Se non succede, e si sentono snocciolare di volta in volta litanie di nomi “decisi a Roma” è proprio per l’inadeguatezza della politica a farsi interprete della città stessa.
Ma i bolognesi sono pragmatici. E, costretti a scegliere ancora una volta, fra un “bottegaio” e un “politicien”, potrebbero anche, ancora una volta, scegliere il primo, come male minore.
Fino a che qualcuno capirà….

Si fa presto a dire kamikaze
Solimano 23 maggio 2003

Che cosa è un kamikaze?
Una bomba intelligente, come quelle della Serbia e dell'Iraq.
In queste ultime, il webmaster sta in un posto, il sistema di guida e l'esplosivo in un altro, mentre nel kamikaze il webmaster ed il sistema di guida coincidono, e stanno nello stesso posto dell'esplosivo.
Ci sono due conseguenze:
-Lo strumento "bomba intelligente" ha il vantaggio di poter utilizzare più volte il webmaster.
-Lo strumento "kamikaze" ha il vantaggio di costare molto meno, se si ha la possibilità di avere molti webmaster a stock.
Serve un calcolo di "break even point". Tranquilli, li fanno questi conti. Poi vanno in televisione a parlare di valori con le lacrime agli occhi.
C'è un altro aspetto: una persona non vale l'altra. Nella prima fase della guerra del Peloponneso, in cui Sparta dominava la terra ed Atene il mare, Demostene, un generale ateniese, per audacia, ma soprattutto per un colpo di fortuna, riuscì a far prigionieri meno di 200 spartiati. Non iloti, neppure perieci, proprio spartiati. Questo fatterello, svoltosi a Pilo, condizionò tutta la conduzione delle operazioni militari di Sparta, ad esempio le annuali invasioni e distruzioni nell'Attica. Qualche anno dopo la guerra ebbe una tregua, basata sullo "statu quo ante", e la restituzione degli spartiati pesò eccome per fare in modo che Atene riuscisse a spuntare condizioni molto buone. Anche oggi, una persona non vale l'altra. Un americano o un israeliano "vale" di più di un irakeno o di un palestinese. Anche un pacifista od un giornalista hanno un buon "valore". C'è da distinguere fra "embedded" e no, e chi si preoccuperebbe tanto di un pacifista dello Sri Lanka?
Terzo aspetto. La differenza delle "regole di ingaggio". Quando i mongoli sbarcarono in Giappone, il primo dei samurai si avanzò fra i due eserciti, decantando, come da copione, la sua discendenza araldica. Era il consueto preliminare dello scontro, ma lo scontro non ci fu: il samurai fu ridotto immediatamente come un puntaspilli dalle frecce dei mongoli. Avevano regole d'ingaggio diverse, ed alla corte di Kyoto erano sdegnati e scandalizzati. Per fortuna, il vento divino (kamikaze) distrusse la flotta coreana che trasportava i mongoli, ed a Kyoto poterono continuare ad essere sdegnati. Cambiarono però le regole di ingaggio, la volta successiva.
Chi è costretto a subire la superiorità tecnologica, trova delle alternative, rovescia la scacchiera, con gli scacchi e tutto. Non si contenta del "come è buono lei". Anche perché il webmaster delle bombe intelligenti, quando scende per strada come gli altri, è un ragazzo brufoloso ed impaurito, come uno "normale", uno che ha meno "valore".
Sono un filoamaericano da decenni. Anche un uomo da multinazionale.
Proprio per questo i newcons, che alla francese preferisco chiamare nouveaux cons mi preoccupano. Ogni tanto, salta fuori una Lucia Annunziata qualsiasi a dire che gli operai sono una "categoria residuale", e che quindi il Quarto Stato di Pelizza da Volpedo è una patetica reliquia. Può essere vero. Qui.
Ma i quattro quinti o i cinque sesti degli abitanti del pianeta si sentono, sono "Quarto Stato". Distribuirgli fazzolettini morali, come facevano le dame vittoriane, non basta, non li soddisfa. Cosa vorrei? Un asettico calcolo di "break even point", ancora una volta. Da una parte il costo di una scudo spaziale (e terrestre, e marino) con tutti gli annessi e connessi, perché alla fine lo scudo te lo devi fare contro l'inquilino del piano di sotto. Dall'altra il costo di una politica che porti il Quarto Stato almeno al Terzo Stato e che non sia una presa per i fondelli dello 0, 3 o dello 0,5 o della 0,7% del PIL. Non sono ottimista, viste le facce dei cons. Ci risparmino almeno la lacrimuccia sdegnata e la lettura mattutina della Bibbia, fra una Enron e l'altra.

Ancora sul referendum
Enzo 16 maggio 2003

Non andrò a votare il 15 giugno perché credo si stia facendo un uso distorto del referendum. Infatti, questo strumento di democrazia diretta serve, in un sistema che si basa sulla mediazione dei partiti, a dare la possibilità ai cittadini di chiedere l'abrogazione di una legge (o parte di essa) quando la stessa interviene su aspetti che attengono la sfera della coscienza individuale e che può prescindere, quindi, dallo schieramento politico in cui l'elettore si riconosce. In questo senso, i referendum sul divorzio e sull'aborto hanno rappresentato due momenti importanti, ma se esaminiamo i quesiti dei successivi referendum si capisce che i cittadini sono stati chiamati a pronunciarsi su materie che sono tipiche dell'elaborazione e del confronto politico. Viceversa l'uso ripetuto del referendum dimostra la crisi della politica, che pensa di (ri)trovare la propria forza nel rapporto diretto con l'elettorato. In realtà la partecipazione alle competizioni referendarie dimostra che tanto più il quesito si allontana dal significato originario (possibilità di intervenire su questioni di coscienza), tanto più l'elettorato risponde con l'indifferenza. La lettura delle percentuali di votanti dice, infatti, che è in atto, fin dall'inizio degli anni 90, un costante allontanamento dell'elettorato. Certamente aver chiamato i cittadini a pronunciarsi su i problemi più disparati e di interesse parziale, ha favorito il disinteresse e, anche, il rafforzarsi, di un'immagine negativa della politica, cioè di una politica che non riesce più a svolgere il proprio ruolo "progettuale" capace, quindi, di mettere in campo ipotesi alternative per la soluzione di problemi e che si rifugia nella semplificazione del sì e no, del prendere o lasciare: in buona sostanza una politica che con la semplificazione ferisce duramente se stessa. Il referendum sull'articolo 18 non sfugge a questo destino. Qualunque sia il risultato sarà una sconfitta per la politica, cioè della capacità di rielaborare la legislazione del lavoro e del welfare alla luce della rivoluzione degli anni novanta che ha stravolto completamente il sistema economico e produttivo e che ha bisogno di profonde ed organiche innovazioni legislative e non certamente di una lacerante battaglia sul sì o no all'articolo 18. Questo modo di intendere lo strumento referendario va, quindi, combattuto affinchè si torni al "senso" che vi avevano attribuito i costituenti, ma, ancor di più, perché l'illusione di "rigenerarsi," chiamando il popolo a pronunciarsi allontana la capacità/possibilità, per i partiti del centro sinistra, di battere Berlusconi su un progetto "per governare il paese".

I referndum svolti dal 1974 ad oggi

Data Referendum Quorum
12-mag-74Divorzio87,70%
11-giu-78Legge Reale sull'ordine pubblico81,20%
11-giu-78Finanziamento pubblico dei partiti81,20%
17-mag-81Legge antiterrorismo79,40%
17-mag-81Ergastolo79,40%
17-mag-81Porto d'armi79,40%
17-mag-81Aborto (Partito Radicale)79,40%
17-mag-81Aborto (Movimento per la vita)79,40%
09-giu-85Scala mobile77,90%
08-nov-87Responsabilità civile dei giudici65,10%
08-nov-87Commissione inquirente65,10%
08-nov-87Localizzazione delle centrali nucleari65,10%
08-nov-87Contributi agli enti locali per le centrali nucleari 65,10%
08-nov-87Partecipazione Enel a progetti di impianti nucleari all'estero 65,10%
03-giu-90Disciplina della caccia43,40%
03-giu-90Accesso dei cacciatori ai fondi privati42,90%
03-giu-90Uso dei pesticidi43,10%
09-giu-91Riduzione delle preferenze plurime nelle elezioni alla Camera62,40%
18-apr-93Competenze delle Usl in materia di tutela ambientale76,90%
18-apr-93Droga77,00%
18-apr-93Finanziamento pubblico dei partiti77,00%
18-apr-93Nomine nelle banche77,00%
18-apr-93Soppressione del ministero delle Partecipazione statali76,90%
18-apr-93Cancellazione della legge elettorale per il Senato77,10%
18-apr-93Soppressione del ministero dell'Agricoltura77,00%
18-apr-93Soppressione del ministero del Turismo e spettacolo76,90%
11-giu-95Rappresentanze sindacali (senza limiti)56,90%
11-giu-95Rappresentanze sindacali (con limiti)56,90%
11-giu-95Contratti nel pubblico impiego56,90%
11-giu-95Soggiorno cautelare57,00%
11-giu-95Privatizzazione della Rai57,20%
11-giu-95Licenze commerciali57,00%
11-giu-95Trattenute sindacali57,10%
11-giu-95Legge elettorale per i comuni con pop. sup. ai 15 mila abitanti57,10%
11-giu-95Orari dei negozi 57,10%
11-giu-95Concessioni televisive nazionali57,90%
11-giu-95Interruzioni pubblicitarie dei programmi televisivi57,90%
11-giu-95Raccolta della pubblicità radiotelevisiva57,80%
15-giu-97Abolizione della Golden Share30,20%
15-giu-97Obiezione di coscienza 30,30%
15-giu-97Libero accesso dei cacciatori nei fondi altrui30,20%
15-giu-97Carriere dei magistrati30,20%
15-giu-97Abolizione dell'ordine dei giornalisti 30,00%
15-giu-97Incarichi extragiudiziari dei magistrati30,20%
15-giu-97Soppressione del ministero per le Politiche agricole30,10%
18-apr-99Cancellazione del voto di lista per l'elezione del 25% deputati49,60%
21-mag-2000Rimborsi elettorali32,20%
21-mag-2000Abolizione quota proporzionale32,40%
21-mag-2000Consiglio superiore della magistratura31,90%
21-mag-2000Separazione delle carriere dei magistrati32,00%
21-mag-2000Incarichi extragiudiziari dei magistrati32,00%
21-mag-2000Licenziamenti32,50%
21-mag-2000Trattenute sindacali32,20%
15-giu-03 Articolo 18
15-giu-03Servitù coattiva di elettrodotto

Il riformismo 'metacentrista'
Montepino 11 maggio 2003

Non sono convinto che questo referendum abbia assunto valore politico come una "diga" contro il regime; sono consapevole però dell'evoluzione concettuale sul termine riformismo: Oggi la parola riformismo ha subìto una inversione semantica. Riformisti sono quelli che vogliono "flessibilizzare" il lavoro rispetto al capitale, ridurre il peso delle spese sociali, sciogliere da ogni vincolo i movimenti del capitale alla caccia del profitto. La parola riformista è diventata un cavallo di battaglia della destra Ed è in questa frase, che ho ripescato da un forumista, la giusta collocazione di coloro che chiamerei meta-centristi (un moderno derivato trasversale ai poli). Una collocazione intendiamoci rispettabilissima, estesa a cavallo dei due attuali 'poli' alterni; ma che, pur intesa a superare l'anomala situazione italiana, non è riformismo ulivista. Il 'metacentrismo' lo si riconosce anche negli interventi in questi forum, ed esso non separa, ad esempio, l'opinione per il "SI" da quella per il "NO" all'estensione dell'art, 18. Paradossalmente unisce gli uni agli altri verso il superamento del sistema bipolare. Al 'metacentrista' fa comodo che si faccia il referendum perché non l'ha promosso; al cosiddetto massimalista, che l'ha promosso , fa comodo perché si fonda sul Lavoro come la nostra Costituzione e sarebbe il 'paradiso' di una 'classe operaia' che torna a vincere. Entrambe le aspettative non si riterrebbero deluse, chiunque fosse il perdente; gli uni e gli altri dimostrerebbero l'impossibilità di costruire maggioranze omogenee sulla base dei programmi elettorali. Ecco perché propendo a credere che si tratterà di una parentesi da astensionismo ulivista più sottinteso che dichiarato. Una 'parentesi' che il Test amministrativo del 25 maggio potrà anticiparci quanto inutile essa sia per il futuro a prescindere.

La base dell'Ulivo? Inizia l'emersione
Massimo 10 maggio 2003

Fra due giorni si riunisce il COP (Coordinamento Organizzativo Provvisorio) dei Cittadini per l’Ulivo, in vista della costituente, che dovrebbe svolgersi il prossimo 14/15 giugno, probabilmente a San Savino (Toscana).

Il Coordinamento di Roma (di cui Suez fa parte per il suo domicilio convenzionale) si è riunito (il 7) per ragionare su quali punti rappresentare al COP.
Tra i molti aspetti venuti al pettine, il principale è stato quello di passare da un Coordinamento Provvisorio – che dovrà serenamente dimettersi – alla nomina di un nuovo Coordinamento (dei Comitati?) e un Esecutivo votato direttamente dall’Assemblea.
Insomma, lo scopo è quello di creare – se tutti saremo d’accordo – una rappresentanza dei Cittadini per l’Ulivo, che possa curare l’evoluzione dei Comitati da volontariato “spontaneo”, in soggetto qualificato capace di mandare propri rappresentanti a discutere con i partiti della Coalizione, ogni volta che avremo da dire la nostra.
Quando è arrivato il mio turno, ho proposto anche la figura del “portavoce”, ovvero una persona che – a livello nazionale – comunichi le scelte definite dal Coordinamento.
Infatti, a mio avviso, sarà molto importante poter rappresentare le posizione della base ai partiti della Coalizione, soprattutto per la superficialità che hanno dimostrato nei confronti del progetto originario dell’Ulivo; un patrimonio che andava curato, aggiornato e sviluppato non solo per una contrapposizione unitaria alla deriva eversiva del governo, ma soprattutto per la promozione di una prospettiva sociale alternativa, chiara e credibile, articolata in proposte sul lavoro, sanità, stato sociale,...

Ma queste decisioni politiche dei Cittadini per l’Ulivo, come e da chi verranno prese? Ci sarà un “parlamentino” a base regionale? Questo sarà un aspetto delicato da risolvere nella Costituente.
Forse un’ipotesi verrà abbozzata nel COP. Forse. Ma quello che è ormai chiaro a tutti è che la legittimazione nasce dalla chiarezza delle regole (ti ricordi Bruno che lo dicevi da tempo?) e dall’organizzazione.
Insomma, inutile girarci intorno: un po’ di “burocrazia” ci tocca, ma solo affrontando questo passaggio organizzativo possiamo diventare incisivi per la rivendicazione di un Nuovo Ulivo e portare il contributo di cui saremo capaci nelle discussioni che si apriranno per la definizione del programma.
A San Savino, o dove si deciderà di costituirci, inizierà una nuova partecipazione per quanti da anni non si sono rassegnati all’accantonamento sostanziale (nonostante le dichiarazioni ufficiali) del “progetto prodiano” da parte dei vertici e ora vogliono – senza timore di spaventare il mitico “elettorato moderato” – ripartire dall’Ulivo, dall’originalità del suo progetto.
Perché, dalla caduta del governo Prodi, l’Ulivo è stato tenuto in vita dai cittadini in tutta Italia ed è ora che la nostra fatica e le nostre proposte entrino nel confronto politico della Coalizione “con pari dignità". Quella che ci siamo conquistati con tenacia e compostezza.

Maggioritario e proporzionale
Solimano 8 maggio 2003

Oggi, su Corriere della Sera, c’è un articolo molto interessante di Mannheimer riguardo un sondaggio molto recente.
Non soffro di sondaggite, e fra l’altro i dati numerici si avvicinano a quelli che mi aspettavo, ma l’articolo di Mannheimer colpisce per alcune considerazioni che egli trae riguardo gli astenuti, gli indecisi, e le differenze fra maggioritario e proporzionale.
Prima di tutto, la fascia di elettori in bilico è del 16%, largamente decisiva per il risultato. Si è ampliata rispetto a qualche tempo fa, e credo che questo sia più positivo per noi.
In secondo luogo, la Margherita è la forza più attraente per coloro che sono incerti se votare o no.
Poi c’è un 6% che vota al maggioritario e che non vota al proporzionale. Sono soprattutto elettori che al maggioritario votano centrosinistra, ed è il fenomeno che siamo abituati a chiamare valore aggiunto dell’Ulivo. Ma in realtà il fenomeno è diverso: l’elettore del centrodestra, che ci piaccia o no, come prima cosa si riconosce in un partito: Forza Italia, Lega, AN. E sono scelte sentite come molto diverse l’una dall’altra. Nella nostra parte del campo non è così: c’è un riconoscersi più debole nei partiti, al punto che nel proporzionale non li si vota.
I motivi, sono sotto gli occhi di tutti: Quercia e Margherita sono come due cantieri aperti, due lavorincorso cronici. Come si fa ad affezionarsi? Si tende a disaffezionarsi, piuttosto.
Con meccanismo di autodifesa, i partiti vorrebbero far credere che questa situazione sia colpa dei movimenti, che invece, con tutta evidenza, sono l’effetto, non la causa.
La cosa è tanto più preoccupante perché, sul piatto del maggioritario, Mannheimer dice che oggi il centrosinistra è davanti al centrodestra.
L’analisi di Mannheimer conferma in sostanza quello che dice Cacciari: i partiti sono deboli perché arroganti ( e litigiosi), e sono arroganti perché deboli (ed insicuri). Invece di sistemare con intelligenza i loro cantieri sempre aperti, se la prendono pure con chi costituisce l’indispensabile volano per il successo: gli elettori politicizzati ma non partitizzati, che non sono qualunquisti, infatti al maggioritario votano, eccome se votano.
Solo se i partiti riusciranno a superare le loro irritanti contraddizioni, il gap fra maggioritario e proporzionale si colmerà, nel senso che il voto nel proporzionale si avvicinerà a quello del maggioritario.
Se ci si riesce, si può vincere, e già mi aspetto che i partiti, a cose fatte, dicano: "Avete visto? Il valore aggiunto dell’Ulivo non c’è più".

Saluti selvatici
Solimano

Vittorio, Lucia, e altri.
Manuela 5 maggio 2003

Quando penso al referendum sull’art.18 non mi vengono in mente teoremi politici, ma piuttosto Vittorio. Vittorio è il mio parrucchiere. Ha iniziato molti anni fa, con altri due soci, e a furia di sforbiciate ben date, si è fatto un nome (capita spesso di trovare nel suo negozio parrucchieri di mezza Europa che vengono ad imparare come si taglia e insieme come si gestisce un’azienda artigiana). Assume regolarmente giovani, li forma (il che non è poco) e, se sono incapaci, li licenzia; se sono bravi, dopo un congruo periodo, o decidono di aprire un negozio per loro conto, o diventano soci, e gestiscono con altri uno degli ormai numerosi atelier sparsi in città e dintorni. Oppure mi viene in mente Lucia, la signora che gestisce la lavanderia. Ha due dipendenti; già di questa stagione le vedi tutte e tre sudare, trascinando piumoni o maneggiando infernali ferri da stiro. Poi c’è Sanzio, che ha trasformato un buco nel bar più ricercato della città: col lavoro suo, dei suoi familiari, dei suoi dipendenti. In queste piccole e piccolissime aziende, la differenza fra “padrone” e “operaio” è impercettibile; il passaggio da una categoria all’altra è continuo, distinzioni sociali, poi, proprio nessuna, chè tutti si lavora e si suda allo stesso modo. Se si licenzia, è un gran brutto segno per tutti, significa che le cose vanno male – e capita, purtroppo, eccome. C’è un numero enorme di situazioni più o meno simili a queste, a formare un tessuto sociale nello stesso tempo solido e flessibile; adattabile a nuove esigenze e fondamentalmente solidale, poiché l’interesse di uno è strettamente intrecciato a quello dell’altro. Proprio non me le vedo, queste persone, nei panni di feroci sfruttatori, assetati di sangue proletario. Vedo gente che lavora, a volte forse troppo, e magari perde di vista altre amene prospettive… ma questo è un altro discorso. Non so ancora se voterò o meno al referendum. Ma se penso a Vittorio, credo che voterò no; perché lo trovo giusto, e pazienza se per una volta sarò collusa col nemico! En passant, difenderei anche il mio diritto di cliente pagante a non farmi massacrare i capelli da un incompetente ormai-non-più-licenziabile. Nonché il suo, a trovarsi un mestiere in cui riuscire meglio.

Sulla complicità Previti-Berlusconi
Massimo ci segnale questo intervento di Di Pietro. 4 maggio 2003

È politicamente scorretto e moralmente indegno, per il ruolo che l'interessato ricopre, il comportamento del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi secondo cui, la sentenza di condanna di Cesare Previti e compagnia bella sia una "persecuzione politica". Di "politica" in questa vicenda (che riguarda invece una corruzione avvenuta a suo tempo fra giudici e imprenditori) c'è solo il fatto che alcuni di essi sono diventati poi Parlamentari, Ministri e Presidente del Consiglio.
Ancora più grave - e tale da mettere a rischio l'essenza stessa della democrazia - è l'altra affermazione di Berlusconi, secondo cui "a questo punto il problema dei giudici va risolto una volta per tutti".
Chi riveste un ruolo istituzionale, specie di rango elevatissimo quale quello di Presidente del Consiglio, ha il dovere (morale, civile e politico) di rispettare le sentenze. Certo, può umanamente ed intimamente confidare nel ribaltamento in appello del verdetto, ma non può delegittimare un'altra istituzione dello Stato né può diffamare a ripetizione i giudici per il solo fatto che hanno condannato un suo amico e sodale.
Ed allora diciamola tutta: tanta solidarietà nei confronti di Previti da parte di Berlusconi in verità tradisce una sottintesa "dichiarazione di complicità".
Complicità nella materialità dei fatti giacchè - al di là della fortunosa prescrizione di cui Berlusconi ha goduto - è certo che (stando almeno all'ipotesi accusatoria prima e alla sentenza di primo grado ora) nelle tasche del giudice Squillante sono finiti centinaia di migliaia di dollari per il tramite dell'avv. Previti che provengono (documenti e bonifici bancari alla mano) dal comparto estero della Fininvest di cui il nostro Presidente del Consiglio era all'epoca il proprietario e dominus.
Di più, egli era ed è anche il proprietario della Mondadori, società che ha potuto acquistare grazie proprio a quell'atto corruttivo.
Ciò premesso, l'affermazione di Berlusconi di voler ora e per sempre risolvere il "problema dei giudici" è una minaccia che risuona come un messaggio di stampo mafioso, intollerabile ed inaccettabile in uno stato di diritto e come tale bisogna denunciare per tempo prima che produca i suoi effetti.

Il Referendum e la Repubblica delle ipocrisie.
Vittorio 4 maggio 2003

Questo Referendum è un bel problema : politico per l'ulteriore spaccatura nel centrosinistra ed economico-sociale per le profonde conseguenze che potrebbe avere nel mondo del lavoro dove è prevedibile un ulteriore forte aumento del lavoro nero. Tralascio sia l'uno che l'altro per fare qualche altra considerazione. Nel merito, il vero problema non è l'art. 18 e quindi la giusta causa, su cui credo siamo tutti d'accordo (in tutti i paesi evoluti c'è qualcosa di simile), ma l'obbligatorietà del reintegro in caso di accertata mancanza della giusta causa. E questo, che è presente solo in Italia, scarica impropriamente sulle imprese la tutela del diritto al lavoro che è dello stato. Ma l'Italia è il paese delle ipocrisie generalizzate elevate a sistema. Per garantirsi la benevolenza dei partiti di sinistra e dei sindacati, i governi dell'ultimo cinquantennio hanno adottato la politica dell'accontentarli, con delle leggi APPARENTEMENTE bellissime (una infinità di leggi, per la gioia dei commercialisti e degli avvocati), ma che se realmente applicate irrigidirebbero talmente tanto le procedure, da paralizzare la vita economica del paese....e allora che si fa? ZAC...sottobanco, con la complicità di TUTTI (partiti di sinistra e sindacati compresi) si cerca di compensare. E allora giù finanziamenti quasi a fondo perduto (senza reali controlli sul buon esito degli investimenti con sperpero vergognoso del denaro di tutti), giù trattative più o meno segrete per consentire alle aziende di fare comunque quello che vogliono (in cambio dell'assunzione di parenti ed amici dei sindacalisti o dei politici che seguono la cosa), etc etc. Insomma un gigantesco "prendersi per i fondelli" con forte distorsione delle regole del mercato, per cui aziende decotte e non innovative continuano a vivere togliendo risorse e mercato ad altre meno scaltre, dipendenti garantiti da questo o da quello, che non rendono nulla alla faccia degli onesti che lavorano anche per loro etc... Certo non è tutto cosi'! Ma questo sistema è diffusissimo, sia nel privato che nel pubblico. Praticamente è una sorta di "pizzo" : chi vuole vivere ed operare è costretto a pagare.
Io naturalmente non andrò a votare!

La terza repubblica?
Vittorio 1 maggio 2003

Credo, e più passa il tempo più me ne convinco, che dopo Berlusconi, nella politica italiana, nulla sarà più come prima. Il centrosinistra è completamente sfasciato e...non è finita qui, la Resistenza è stata in qualche modo ridimensionata..., gli atteggiamenti ingessati di rispetto fra i vari poteri dello stato...pure, etc. Insomma credo proprio che sarà un'altra repubblica....la terza? E tutto sommato non ci vedo solo aspetti negativi...anzi. Io sono un bipolarista ante-litteram. Il terzopolismo non mi è mai piaciuto...lo trovo un concentrato di tutti gli italici difetti, alla Sordi insomma. Anche se mi spiace riconoscerlo, Berlusconi è uno dei pochi che ha capito come funziona il bipolarismo. E sta spingendo (anche inconsapevolmente forse) a spallate tutto il mondo politico italiano verso una decomposizione (salutare soprattutto per il centrosinistra) con ovvia conseguente riaggregazione. Questo processo era ed è positivo perchè purtroppo, ad eccezione di Prodi e pochi altri, nessun politico di CS si è ancora sganciato mentalmente dalla prima repubblica (e neanche la cosiddetta base). Che ci piaccia o no, per me, quanto appena detto è un dato di fatto evidente ed eclatante! Purtroppo, temo che ci vorrà ancora un'altra legislatura all'opposizione prima che "i nostri", allenati da 50 anni di democristianesimo e PCInesimo, si convincano. Anche in Inghilterra ci sono volute più legislature di thacherismo prima di far sgretolare il maxi-inciucio tra sindacati e partiti di sinistra che paralizzavano la vita del paese. Potrei essere smentito, e ne sarei felice, solo se ci convincessimo tutti della necessità di far nascere un Partito Democratico (o comunque lo si voglia chiamare), in contrapposizione al centrodestra.